Le avventure delle immagini
Percorsi tra arte e cinema in Italia
di Francesco Galluzzi
ed. Solfanelli, pagg.117, 2009
Recensione di Ninni Radicini
L'immagine del mondo classico nella cinematografia italiana ha caratterizzato la produzione e il dibattito critico fin dall'inizio dell'industria della riproducibilità delle immagini in movimento, sulla scia delle novità apportate dalle avanguardie nelle arti visive tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento e della rilevanza assunta nello stesso periodo dall'archeologia come ricerca delle origini e riappropriazione della Storia, in funzione della formazione della identità nazionale. L'ambientazione greco-romana è stata una delle prime ad essere utilizzata: nel 1898 Georges Melies girava Pygmalion et Galathèe. Come dimostrato da Cabiria (regia di Giovanni Pastrone, 1914) - primo kolossal italiano a cui collaborarono anche D'Annunzio e Salgari -, le ricostruzioni storiche furono soggette a due forze non sempre convergenti: l'accuratezza filologica e la spettacolarizzazione della messinscena.
La questione del rapporto tra realtà storica e trasposizione cinematografica non fu però circoscritta alle produzioni italiane e ancora nel 1927 la rivista inglese "Close up" pubblicava un articolo di Hilda Doolittle, a sostegno di una linea di essenzialità, di "purezza", in alternativa allo stile di Griffith e DeMille. All'inizio non tutte le avanguardie artistiche credettero alle potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione. Tra gli scettici, a sorpresa, vi erano i futuristi, seppure si trattò di una circostanza di brevissima durata. Virgilio Marchi, architetto proveniente dal movimento ideato da Marinetti, diventò uno dei più grandi scenografi del cinema italiano (es. La corona di ferro) e la partecipazione degli artisti fu tale da determinare la nascita di un genere "futurista", uno dei tre su cui si resse la produzione italiana dei primi due decenni del Novecento: il terzo in ordine di rilevanza, dopo quello storico e quello realista.
La partecipazione di pittori, architetti, scultori al lavoro di registi, sceneggiatori, attori, a cominciare da quelli estranei alle avanguardie, fu determinante per lo sviluppo della cinematografia, poiché al di là di ogni dibattito teorico intesero il cinema come occasione di applicazione della propria creatività. A metà degli anni Venti l'insuccesso di Gli ultimi giorni di Pompei di Carmine Gallone e Amleto Palermi determina una crisi del genere storico-archeologico. Un decennio dopo, Gallone lo riprende dirigendo Scipione l'Africano, premiato poi al Festival del Cinema di Venezia del 1937. Nella rappresentazione imperiale di colui che sconfisse Annibale, l'accuratezza nella ricostruzione dell'antica Roma è accompagnata dall'anacronismo dei titoli di testa, che scorrono sui "rilievi traianei" con chiari intenti propagandistici.
Nel 1947, un nuovo tentativo fu compiuto da Alessandro Blasetti con Fabiola. Nella narrazione della vicenda della conversione al cristianesimo della patrizia romana, il regista utilizzò sia i parametri già consolidati nei decenni precedenti per gli ambienti romani, sia quelli del neorealismo per le parti relative alla comunità cristiana. La ripresa avvenne nel decennio seguente sulla scia del successo popolare delle produzioni americane girate in Italia (Cleopatra, Ben Hur) e italo-americane (Ulisse di Mario Camerini, con Kirk Douglas). Cinecittà diventa la "Hollywood sul Tevere" ma soprattutto la conseguente disponibilità di costumi e scenografie invoglia i produttori italiani a utilizzare in modo pragmatico e geniale questa congiuntura. Fu l'inizio di un nuovo genere - il peplum - che riprendeva alcune delle caratteristiche di quello d'inizio secolo (es. la narrazione) ma si dimostrò innovativo in virtù della provenienza culturale e professionale dei nuovi registi.
Molti dei loro, oggi considerati autori di culto su scala internazionale, provenivano da esperienze nell'ambito delle arti visive e della fotografia, da cui una caratterizzazione di questa nuova era del film storico-mitologico non tanto per la plausibilità della ricostruzione storica quanto per le elaborazioni visive innovative, derivate dalla letteratura e dalle nuove correnti artistiche. A parte qualche esempio di ricerca di verosimiglianza storica (es. Ercole alla conquista di Atlantide, regia di Vittorio Cottafavi, 1961), già la prima pellicola peplum, Le fatiche di Ercole (1958, regia di Pietro Francisci) reinterpreta la Grecia classica, attraverso Hölderlin, Nietzsche, e il rapporto freudiano tra mitologia e psiche.
Nel celeberrimo Maciste all'Inferno (1962), il regista Riccardo Freda ambienta la trama nella Scozia del XVII secolo, facendo scendere il protagonista negli abissi terrestri per combattere contro figure rievocanti la mitologia greca in scenari tipici della pittura di Bosch. Mario Bava in Ercole al centro della Terra (1961) utilizza effetti psichedelici. Questi però non sono anacronismi né tantomeno errori; sono invece contaminazioni storico-culturali finalizzate alla realizzazione di un prodotto in linea con le nuove istanze artistiche della società dei consumi degli anni Sessanta e dell'affermazione dei nuovi mass media, prima tra tutti la televisione.
Negli anni tra l'Ottocento e il Novecento le arti plastiche attraversano una ridefinizione profonda e l'avvento del cinema avvia un rapporto paritario che farà evolvere entrambi, ancora più di avvenuto con l'invenzione della fotografia. Alcuni artisti, tra cui Kandinsky e Malevic, ipotizzarono la realizzazione di film e Kahnweiler prevedeva una evoluzione del Cubismo nel cinema di animazione. Intanto in tema di utilizzo del cinema come mezzo di comunicazione per costruire e rafforzare l'identità nazionale, dopo il genere storico-archeologico, che richiamava i fasti imperiali romani, si afferma una nuova linea narrativa incentrata sul periodo del Risorgimento, allora anche culturalmente più vicino: il conteso storico, la letteratura e la pittura dell'Ottocento. A volte con articolazioni sorprendenti.
In Malombra (1942), Mario Soldati fa riferimento al dipinto Isola dei morti di Böcklin e in 1860 Alessandro Blasetti - il film è del 1934 - utilizza il dialetto in modo non folkloristico, marcandone in modo pressoché esplicito l'essere elemento fondante della cultura popolare italiana. La convergenza tra il realismo nella pittura e nella letteratura (in particolare quella di Verga) e il cinema giunge al culmine, ed a una svolta di interpretativa contemporanea, nel 1943 con Ossessione, di Luchino Visconti. Nello stesso periodo si sosteneva l'opportunità che gli artisti partecipassero in modo diretto alla realizzazione dei film. Colui che rappresentò in modo più compiuto questa tendenza - già sperimentata nel cinema francese degli anni 30 - fu Renato Guttuso, i cui dipinti di ambientazione popolare, meridionale, contadina, apparivano come riferimento ideale per il primo nuovo genere cinematografico italiano postbellico: il Neorealismo.
Oltre agli esempi di rappresentazione oggettiva e realistica della società italiana dell'immediato secondo dopoguerra, il Neorealismo produsse anche esempi di interpretazione onirica (Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica) e caricaturale della allora nascente società dei consumi di massa (Lo sceicco bianco, 1952, di Federico Fellini). Nel 1954 sarà ancora Luchino Visconti a segnare una ulteriore svolta con Senso, film storico a colori, che recupera il calligrafismo del cinema di rievocazione risorgimentale, da lui stesso consegnato alla storia dopo Ossessione. Ma non si trattò di un ritorno al passato poichè la citazione pittorica e l'impianto letterario furono orientati a una lettura critica, come lo sarà poi Il Gattopardo.
In questo stesso periodo un certo numero di artisti scelgono di entrare in modo diretto nell'ambito cinematografico. I fondatori di Forma 1 frequentano il Centro Sperimentale e uno di loro, Mino Guerrini, diventerà regista, girando varie pellicole tra gli anni '60 e '80. La stessa figura dell'artista diventa caratteristica della società italiana al punto da essere rappresentata in vari film (es. Le amiche, 1955; Roma ore 11, 1952). Nella scelta dei paesaggi in due decenni si passa dalla prevalenza degli scenari periferici (neorealismo) al patrimonio artistico in versione cartolina (neorealismo rosa) all'inquadratura dell'opera arte a sostegno delle scelte stilistiche del regista. Tra coloro che si ritiene abbia ottenuto i migliori risultati nella composizione tra inquadratura dell'opera e sequenza vi fu Michelangelo Antonioni. Intanto negli anni '60 arriva la Pop Art e il rapporto tra arte e cinema cambia ancora. Mario Bava nel 1968 dirige Diabolik, uno dei migliori esempi di applicazione della nuova corrente. Soprattutto, si afferma la televisione che incide in modo definitivo sul modo si costruire l'immagine e di relazionarla con lo spettatore.
Negli anni Trenta, il documentario d'arte comincia ad acquisire un interesse crescente. Aumentano le produzioni e diventa motivo di una significativa riflessione teorica, sia da parte dei registi, sia da degli storici dell'arte. Del documentario artistico già la cinematografia degli anni Trenta e Quaranta (il Formalismo o Calligrafismo) di Mario Soldati, Renato Castellani e Mario Camerini, aveva fatto propri vari parametri. Negli anni Cinquanta a sostegno di questo genere vi fu la convinzione che la macchina da presa fosse un potenziamento dell'occhio e che il film d'arte potesse essere parte del sistema divulgativo e formativo incentrato sul cinema (e sulla televisione) a beneficio del progresso della società italiana.
Sul rapporto tra macchina da presa e opera d'arte le valutazioni differivano. Ad affermarsi fu lo stile di Luciano Emmer in cui l'opera veniva adattata agli standard cinematografici. Non mancarono gli storici dell'arte passati alla regia, come Carlo Ludovico Ragghianti, che tentò di realizzare una sintesi tra il purovisibilismo viennese e la sua formazione crociana, e Roberto Longhi, una delle personalità più influenti nello sviluppo teorico del cinema degli anni '50 e '60.
Francesco Galluzzi, storico e critico d'arte, docente di Estetica all'Accademia di Belle Arti di Palermo e di Arte e cinema alla Scuola di specializzazione di Storia dell'arte dell'Università di Siena, già autore di altri saggi, nei tre capitoli di Le avventure delle immagini, descrive il rapporto tra arti visive e cinema in Italia dai primi del Novecento fino agli anni Sessanta (riferimenti anche a produzioni degli anni Settanta e Ottanta), con modalità appropriate sia a lettori già esperti sia a coloro che volessero approfondire lo studio della storia della cinematografia italiana in anni ritenuti tra i più dinamici e innovativi. Da quel contesto storico e teorico è derivata una produzione tuttora di riferimento per registi e operatori del settore, compresi generi e personaggi riscoperti e rivalutati a partire dagli anni Novanta dalla critica e dagli spettatori.
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